Partirò
da una definizione di cosa sia il solipsismo. L'enciclopedia Bompiani
di filosofia lo definisce così:”E' la dottrina filosofica secondo
la quale il soggetto pensante deve, per necessità ad un tempo
razionale ed empirica, affermare con certezza evidente la realtà di
se stesso, in quanto è pensante, ma solamente di se stesso.” Il
solipsista è dunque convinto che esista solamente la sua coscienza e
i contenuti della sua coscienza, quanto agli altri nulla di certo si
può dire: potrebbero essere semplicemente dei manichini abbigliati
come noi ma nulla di più (questa diciamo “strana fantasia”
appare nelle Meditazioni Metafisiche di Cartesio, all'inizio
della ricostruzione del sapere operata dal filosofo francese). Questa
posizione teoretica comporta evidentemente gravi conseguenze sul
piano pratico perché non può che condurre all'incomunicabilità e
alla chiusura del soggetto in se stesso. Dobbiamo dunque rassegnarci
a restare prigionieri di noi stessi, chiusi all'interno della nostra
coscienza? Dobbiamo dunque rassegnarci metaforicamente a vivere come
il pittore Pontormo ”uomo fantastico e solitario” isolati nella
strana casa della nostra coscienza? (Quel “maledetto io” contro
cui si scagliava lo scrittore Carlo Emilio Gadda.) Lo confesso
francamente: in certi momenti della mia vita l'ho quasi pensato, e
ciò mi ha portato probabilmente a una certa difficoltà comunicativa
e relazionale con gli altri. Mi ha risvegliato da questo sonno
dogmatico solipsista Arthur Schopenhauer il quale sostiene che il
solipsismo (egoismo teoretico) pur essendo inconfutabile con
argomenti razionali si può però ”ritrovare solamente nel
manicomio”, dove non ha bisogno di argomenti per confutarlo, ma
di “cure” per guarirlo. Dunque davvero ha ragione
Wittgenstein quando scrive che “il filosofo è un uomo che deve
guarire da molte malattie dell'intelletto, prima di poter giungere
alle convinzioni del senso comune.” Ma forse nella posizione
solipsistica c'è molto di più di una semplice malattia mentale
bisognosa di cure. E proprio riflettendo su Wittgenstein provo a dare
la mia interpretazione del solipsismo. Si tratta di una libera
interpretazione che non vuole essere filologica di quello che egli
scrive a proposito del solipsismo. Nel suo Tractatus alla
proposizione 5.62 egli scrive una frase particolarmente enigmatica:”
Ciò che il solipsismo intende è del tutto corretto; solo non si
può dire,
ma mostra sè”(sottolineature
mie). E proprio riprendendo l'opposizione tra dire e mostrare
caratteristica della filosofia del Tractatus
di Wittgenstein io provo a dare la mia interpretazione del
solipsismo. Come posizione filosofica teoretica che afferma (dice)
l'esistenza dei soli contenuti di coscienza del nostro io e che
dunque porta allo scetticismo e alla chiusura verso il mondo e gli
altri il solipsismo è del tutto privo di senso ed è assolutamente
da respingere. Però questa proposizione non è un semplice non senso
assoluto, non è un insieme di parole insignificanti come “casa,
allora, forse”; il solipsismo penso mostri qualcosa di molto importante e di radicale sulla nostra condizione di
esseri umani attualmente esistenti. La posizione solipsitica mostra
che nasciamo soli e moriamo soli, nel senso che nessuno può vivere
la vita e neppure la morte di un'altra persona. Esiste quindi una
distanza dagli altri che è incolmabile. In un senso profondo e
radicale possiamo dire allora con Sartre che davvero “Siamo
soli, senza scuse”. Direi
che il solipsismo mostra
la precarietà, se volete il carattere drammatico della nostra
esistenza di esseri umani; mostra
la fragilità del nostro essere, mostra
che anche il rapporto con gli altri ha dei limiti radicali, nella
misura in cui è impossibile annullare la distanza ontologica che ci
separa dalle altre persone. Metaforicamente direi che tutti noi
viviamo quotidianamente come appesi al seggiolino di una seggiovia,
ed ognuno occupa il proprio posto senza poter occupare assolutamente
quello dell'altro, ma anche da questa posizione propria di ciascuno
di noi possiamo tranquillamente parlarci, interagire, affezionarci
l'un l'altro senza rimanere necessariamente e completamente
prigionieri di noi stessi.
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