giovedì 22 novembre 2018

IL PROBLEMA DEL SOLIPSISMO

Partirò da una definizione di cosa sia il solipsismo. L'enciclopedia Bompiani di filosofia lo definisce così:”E' la dottrina filosofica secondo la quale il soggetto pensante deve, per necessità ad un tempo razionale ed empirica, affermare con certezza evidente la realtà di se stesso, in quanto è pensante, ma solamente di se stesso.” Il solipsista è dunque convinto che esista solamente la sua coscienza e i contenuti della sua coscienza, quanto agli altri nulla di certo si può dire: potrebbero essere semplicemente dei manichini abbigliati come noi ma nulla di più (questa diciamo “strana fantasia” appare nelle Meditazioni Metafisiche di Cartesio, all'inizio della ricostruzione del sapere operata dal filosofo francese). Questa posizione teoretica comporta evidentemente gravi conseguenze sul piano pratico perché non può che condurre all'incomunicabilità e alla chiusura del soggetto in se stesso. Dobbiamo dunque rassegnarci a restare prigionieri di noi stessi, chiusi all'interno della nostra coscienza? Dobbiamo dunque rassegnarci metaforicamente a vivere come il pittore Pontormo ”uomo fantastico e solitario” isolati nella strana casa della nostra coscienza? (Quel “maledetto io” contro cui si scagliava lo scrittore Carlo Emilio Gadda.) Lo confesso francamente: in certi momenti della mia vita l'ho quasi pensato, e ciò mi ha portato probabilmente a una certa difficoltà comunicativa e relazionale con gli altri. Mi ha risvegliato da questo sonno dogmatico solipsista Arthur Schopenhauer il quale sostiene che il solipsismo (egoismo teoretico) pur essendo inconfutabile con argomenti razionali si può però ”ritrovare solamente nel manicomio”, dove non ha bisogno di argomenti per confutarlo, ma di “cure” per guarirlo. Dunque davvero ha ragione Wittgenstein quando scrive che “il filosofo è un uomo che deve guarire da molte malattie dell'intelletto, prima di poter giungere alle convinzioni del senso comune.” Ma forse nella posizione solipsistica c'è molto di più di una semplice malattia mentale bisognosa di cure. E proprio riflettendo su Wittgenstein provo a dare la mia interpretazione del solipsismo. Si tratta di una libera interpretazione che non vuole essere filologica di quello che egli scrive a proposito del solipsismo. Nel suo Tractatus alla proposizione 5.62 egli scrive una frase particolarmente enigmatica:” Ciò che il solipsismo intende è del tutto corretto; solo non si può dire, ma mostra sè(sottolineature mie). E proprio riprendendo l'opposizione tra dire e mostrare caratteristica della filosofia del Tractatus di Wittgenstein io provo a dare la mia interpretazione del solipsismo. Come posizione filosofica teoretica che afferma (dice) l'esistenza dei soli contenuti di coscienza del nostro io e che dunque porta allo scetticismo e alla chiusura verso il mondo e gli altri il solipsismo è del tutto privo di senso ed è assolutamente da respingere. Però questa proposizione non è un semplice non senso assoluto, non è un insieme di parole insignificanti come “casa, allora, forse”; il solipsismo penso mostri qualcosa di molto importante e di radicale sulla nostra condizione di esseri umani attualmente esistenti. La posizione solipsitica mostra che nasciamo soli e moriamo soli, nel senso che nessuno può vivere la vita e neppure la morte di un'altra persona. Esiste quindi una distanza dagli altri che è incolmabile. In un senso profondo e radicale possiamo dire allora con Sartre che davvero “Siamo soli, senza scuse”. Direi che il solipsismo mostra la precarietà, se volete il carattere drammatico della nostra esistenza di esseri umani; mostra la fragilità del nostro essere, mostra che anche il rapporto con gli altri ha dei limiti radicali, nella misura in cui è impossibile annullare la distanza ontologica che ci separa dalle altre persone. Metaforicamente direi che tutti noi viviamo quotidianamente come appesi al seggiolino di una seggiovia, ed ognuno occupa il proprio posto senza poter occupare assolutamente quello dell'altro, ma anche da questa posizione propria di ciascuno di noi possiamo tranquillamente parlarci, interagire, affezionarci l'un l'altro senza rimanere necessariamente e completamente prigionieri di noi stessi.

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